Sgombriamo subito il campo da ogni equivoco: il compito dello Stato è aiutare a vivere, non a morire. E’ garantire alle persone con disabilità un’esistenza dignitosa attraverso la tutela dei diritti, il supporto economico e psicologico, l’accesso alle cure, alla riabilitazione e alla rieducazione, l’integrazione, l’abbattimento delle barriere architettoniche, il riconoscimento della figura del caregiver.
Prima ancora di chi combatte per il diritto a morire, gli eroi sono coloro che sostengono e accompagnano chi lotta per continuare a vivere, in un Paese che non fa mai seguito agli slogan elettorali, in cui la possibilità di beneficiare di un adeguato Fondo per la non autosufficienza è un’odissea che va avanti da sempre: le coperture non bastano mai ma soprattutto è carente la consapevolezza di una politica ipocrita che, per una volta, dovrebbe alzarsi dalla poltrona e sedersi su una sedia a rotelle.
Ieri la Corte Costituzionale è stata chiara: Marco Cappato è innocente, lo Stato colpevole.
Il suicidio assistito entra finalmente nell’ordinamento italiano: non con una legge del Parlamento ma con una sentenza della Consulta che si è fatta avamposto dei diritti fondamentali laddove le Camere elette e pagate da tutti noi hanno evitato di assumersi ogni responsabilità, rimanendo immobili di fronte a una materia divisiva.
Serviva la determinazione di Piergiorgio Welby, Luca Coscioni, Giovanni Nuvoli, Beppino Englaro, Mario Fanelli, Walter Piludu, Fabiano Antoniani. Serviva la disobbedienza civile di Marco Cappato per cambiare un Paese perennemente democristiano e sempre incline alla grande ipocrisia di non voler certificare quello che è già ampiamente praticato da medici pietosi, lontano dalle telecamere, nel buio degli ospedali.
Ma serve ancora coraggio per ridefinire il perimetro di un verdetto che si limita a menzionare i pazienti “tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale”, estendendolo ad ogni patologia irreversibile che sia fonte di sofferenze fisiche e psicologiche ritenute intollerabili da chi la vita non la vive, ma la subisce, in un corpo che è diventato una prigione.
In nome della civiltà abbiamo abolito la pena di morte.
E’ giunto il momento di abolire anche la pena di vivere.
Con l’auspicio che il diritto al suicidio assistito non diventi un alibi per sottrarsi al dovere di favorire, aiutare, sostenere la vita, sempre.