Mi scatto un selfie mentre sono seduto sul water, accetto la richiesta di amicizia di Mussolini Forever, mi lamento del capo dispotico, condivido una fake news sul fratello della Boldrini, pubblico la radiografia del mio colon, tempesto di commenti allusivi gli scatti succinti della vicina, sbandiero estremismo politico anti-sistema, inveisco contro la Rubentus, racconto a tutti che sono in ferie a Gatteo Mare, mi iscrivo al gruppo Trombamica Cercasi.
Ottengo, nell’ordine: la disoccupazione, una denuncia per diffamazione, la casa svaligiata, un esposto per stalking, il divorzio e il rifiuto del visto per gli Stati Uniti.
Oltre, ovviamente, a meritare lo status di cretino digitale.
Sì perché, se relazioni e posti di lavoro non sono mai stati tanto a rischio quanto dall’avvento di Facebook, ora non abbiamo nemmeno più la garanzia di poter partire per dimenticare, di meritarci un po’ di evasione nella patria del rock, degli studios e del cibo spazzatura.
Il dipartimento di Stato e il dipartimento di Sicurezza interna degli Stati Uniti hanno annunciato proprio in questi giorni che, d’ora in poi, per essere graditi ospiti, assieme alla domanda di visto sarà necessario fornire tutti gli account social utilizzati: Facebook, Twitter, Instagram, YouTube ma anche Flickr e il trapassato Google+.
Non solo. L’indagine non si limiterà alle attività più recenti ma si estenderà a quella degli ultimi 5 anni: post, foto, video e informazioni di ogni genere… Tutta la nostra attività social verrà scandagliata dalle autorità competenti.
Scripta manent e “mi piace” pure.
Chissà se finalmente ci convinceremo ad usare i social con buonsenso, a scansare la trappola della condivisione precipitosa, a gestire la compulsiva logorrea mediatica, a riappropriarci dell’antica parvenza di santi, poeti e navigatori ormai soppiantata da quella di tuttologi, opinionisti e guardoni.
Che poi Trump non ci accoglie nell’ambita destinazione a stelle e strisce perché teme la concorrenza.