Ricordo bene quel giorno.
Era la mattina del 23 dicembre 2016 quando è arrivata la prima agenzia: “Sparatoria nella notte davanti alla stazione ferroviaria di Sesto San Giovanni: agenti uccidono uomo armato”. Di lì a poco si ipotizza che si possa trattare di Anis Amri, il killer che era piombato sulla folla con un tir al mercatino di Natale di Berlino. Poi arriva la smentita. Poi la conferma.
A fermarlo per un controllo documenti e poi a sparare sono stati 2 agenti di polizia, Cristian Movio e Luca Scatà: l’Italia ha i suoi eroi.
Personalmente mi chiedo dove stia l’eroismo in un’azione del genere.
Gli angeli del Rigopiano, che per 180 ore ininterrotte hanno scavato tra neve e macerie per salvare vite umane, sono eroi.
Rispondere al fuoco di un pazzo, è legittima difesa. Tra l’altro, quando hanno sparato, non sapevano nemmeno si trattasse del killer di Berlino.
Ma l’Italia ha bisogno di crederci e, già che c’è, di riscattarsi da una Germania che la bacchetta continuamente. Ha bisogno di sentirsi migliore, per una volta, e di presentare al mondo i suoi eroi.
Dal canto suo, Berlino ci ringrazia, e augura “una pronta guarigione ai colleghi feriti”.
Grazie e pronta guarigione ai colleghi feriti.#Danke für die Unterstützumg & gute Besserung dem verletzten Kollegen. #Breitscheidplatz
^yt https://t.co/pADRzz6Wym— Polizei Berlin (@polizeiberlin) 23 dicembre 2016
Il mio primo impulso è andare sui profili social per vedere chi sono realmente, questi eroi. E’ una prassi molto comune, oggi: di fronte a un fatto di cronaca, qualunque giornalista va a farsi un giro sugli account, istituzionali o privati, delle persone coinvolte.
E trovo subito contenuti dei quali non si può certo andare fieri: Movio condivideva su Facebook post di siti razzisti; Scatà pubblicava su Instagram foto di Mussolini, selfie col saluto romano e, in occasione del 25 aprile, la dichiarazione di stare “dalla parte di quell’Italia, di quegli italiani che non tradirono e non si arresero”.
Mi chiedo quanto ci metterà il caso ad esplodere. Ma le ore passano e poche testate ne parlano. Poi le immagini vengono rimosse e i profili oscurati perché, come spiega il questore di Milano, c’è il “dovere di tutelare gli agenti” (dovere del quale nessuno si è preoccupato quando sono state diffuse le loro generalità).
L’Italia ha ancora i suoi eroi.
Ma la Germania non ci sta e, a distanza di 2 mesi, con la sua proverbiale intransigenza fa sapere che non ci saranno medaglie per gli agenti “fascisti”.
Il Web insorge, tra attacchi e battute: da “La Germania decide di non consegnare onorificenza ad agenti italiani perché simpatizzanti di Mussolini. Detto da loro che veneravano Hitler” (@loralda81) a “Niente di cui stupirsi per i poliziotti fascisti. Dovrebbe esserci ormai chiaro che la Germania non vuole la nostra concorrenza” (@rbriddick1977).
Eppure l’apologia del fascismo è reato e, perpetrata da un agente di polizia, mi sembra ancora più grave: prima di indignarci per la mancata medaglia, dovremmo chiederci come mai questi ragazzi, armati e in divisa, fossero di pattuglia a Sesto San Giovanni quella notte, in un Paese in cui Paolo Di Canio viene allontanato dalla tv per un tatuaggio (e faceva il commentatore sportivo, non il tutore dell’ordine).
Ma ciò che mi colpisce davvero è che, a distanza di un decina d’anni dalla diffusione massiva dei social network, le persone non abbiano ancora capito che non sono un gioco.
C’è chi ha perso il lavoro per un post; chi è stato arrestato; chi si è trovato la casa svaligiata al ritorno dalle ferie, dopo un accurato reportage sulle località visitate.
Eppure stiamo ancora lì, a pubblicare di tutto, spesso a vomitare odio, senza renderci conto che i social network sono una finestra attraverso la quale chiunque può sbirciare nella nostra vita privata, una sorta di biglietto da visita col quale ci presentiamo al mondo.
Ecco. Prima di risentirci perché è stato negato un premio ai nostri eroi, proviamo a svegliarci.