Ammetto di non essere una fanatica del referendum, e di apprezzare questa forma di consultazione popolare solo quando riguarda questioni semplici che incidono sulla nostra quotidianità, come l’acqua pubblica o l’orario di apertura dei supermercati.
Se invece di tratta di decisioni più complesse, che impattano sulla Costituzione, sull’efficienza delle istituzioni, sul bilancio dello Stato, perché una popolazione che vanta il primato del 47% di analfabetismo funzionale (dati OCSE) dovrebbe decidere al posto dei professionisti preparati e competenti che ci rappresentano?
Forse perché, ammaliati dall’idea di un bel calcio nel sedere alla Casta, abbiamo riempito il Palazzo di buoni a nulla, pronti a tutto tranne a governare.
E ci sta pure che si preferisca affidare le sorti dello Stato alla casalinga di Voghera, ferratissima nel far quadrare i conti familiari, piuttosto che al bibitaro del San Paolo, Ministro degli Esteri per imperscrutabilità divina.
I motivi del NO a questo referendum sul taglio a casaccio dei seggi parlamentari, spiegati a più riprese da studiosi, esperti e costituzionalisti, mi sembrano chiari: in assenza di una progettualità riformatrice, si tratta di una riduzione numerica fine a se stessa che non accresce l’efficienza della macchina legislativa.
Il ping pong tra Camera e Senato resterà identico, come invariata resterà la vera debolezza strategica del nostro Paramento: la qualità degli eletti. Ma di eliminare le liste bloccate non si parla perché ai capipartito piace troppo nominare i propri fedelissimi che, sempre più e sempre peggio, avranno alle spalle ricchi e potenti finanziatori, con buona pace degli interessi dei cittadini.
Non cambia il modo di selezionare la classe dirigente politica, non c’è una nuova legge elettorale proporzionale, non ci sono moderne norme costituzionali che trasformino in maggiore efficienza il taglio selvaggio.
E il risparmio, in termini economici, è irrisorio: secondo l’Osservatorio dei conti pubblici italiani di Carlo Cottarelli ammonterebbe a 57 milioni l’anno, lo 0,007% della spesa pubblica. Tradotto: un caffè a testa.
Ciò che ancora non ho capito, soprattutto ascoltando le dichiarazioni dei promotori di questa riforma, sono le ragioni del SI’, a parte ovviamente quella di risollevare le sorti di un Movimento in emorragia di consensi, che per garantirsi un super spot elettorale ha bisogno di tenere alta l’asticella dell’odio verso i privilegi della politica, esattamente come fa Salvini nei confronti dei migranti.
Nell’ultima settimana ho sentito Luigi Di Maio affermare in una diretta Facebook: “Se il Parlamento che ha 600 parlamentari ha una debolezza troppo forte e allora perché in Germania, che hanno più cittadini di noi, hanno solo 700 parlamentari eletti?”. Al netto di grammatica e sintassi, un’osservazione inutile e qualunquista, dato che la Germania non è soggetta a un bicameralismo paritario in cui il Senato ha esattamente gli stessi poteri della Camera, come l’Italia.
Ho poi intercettato Manuel Tuzi che, in evidente overdose da controllo digitale made in Casaleggio, su SkyTg24 ha dichiarato: “Un Parlamento ridotto in termine di numeri è anche un Parlamento che può essere controllato meglio, perché maggiore è il numero dei parlamentari, maggiore è il numero di persone che possono essere potenzialmente corrotte”. Non fa una piega, ma fa paura.
Infine, alla festa del Fatto Quotidiano, ho sentito il premier Giuseppe Conte sostenere: “Il taglio degli eletti non pregiudica la funzionalità delle Camere”. Un po’ come dire: ti togliamo la cistifellea, tanto vivi lo stesso. Così, ad minchiam.
Personalmente, contribuire alla campagna pubblicitaria di Grillo-Di Maio-Di Battista-Crimi-Pargone, cioè di coloro che, dopo aver irrimediabilmente mortificato la credibilità della nostra politica, in questi giorni stanno pagando la propaganda di Salvini e Meloni su Facebook per il sì al referendum, è un pensiero che non mi alletta per niente.
Eppure mi si insinua un dubbio, un unico scrupolo che potrebbe trattenermi dal votare No: il pensiero di perseguitare, per l’ennesima volta, il già compromesso riformismo italiano. Se replichiamo la batosta subita da Renzi nel 2016, quante probabilità ci sono che il Parlamento si cimenti ancora con la necessità di migliorare e rafforzare la nostra democrazia?
Ma una brutta riforma è davvero meglio di niente?
In un crescendo di sconforto, alle ragioni del sì e del no aggiungo le ragioni del boh.