La rivoluzione comunicativa di Francesco

La sera del 13 marzo 2013, dalla loggia di San Pietro, il mondo ha assistito a un cambio di paradigma nella comunicazione del papato.
Papa Francesco si è affacciato senza indossare la mozzetta rossa, simbolo del potere dei suoi predecessori, e con al collo una croce semplice invece di una preziosa.
Le sue prime parole non furono solenni, ma un modesto saluto quotidiano (“fratelli e sorelle, buonasera”), che lasciava intravedere l’inizio di una rivoluzione nella grammatica comunicativa della Chiesa: meno austera, più vicina, più umana. Una grammatica che ha riscritto l’identità stessa di una Chiesa fino a quel momento isolata, disorientata e travolta dagli scandali.

Fin da subito l’ostinato obiettivo di Bergoglio è stato farsi capire da tutti, adottando un linguaggio semplice, ricco di immagini concrete, metafore incisive e riferimenti al vissuto delle persone comuni. Ha parlato della Chiesa come di un ospedale da campo, ha detto che un buon pastore deve avere l’odore delle pecore, ha usato senza esitazione espressioni gergali e dialettali, come quel celebre “la corruzione spuzza” o il discusso “c’è troppa frociaggine”, superando il linguaggio elegante della tradizione ecclesiastica per parlare la lingua del popolo.
“La vera fede va trasmessa in dialetto”, ha dichiarato, consapevole che il messaggio si incide nella mente quando passa senza filtri dal cuore.

È la comunicazione che rinuncia alla perfezione formale per abbracciare la vita reale. E Francesco è uscito dai ranghi pur di andare incontro alla vita, scavalcando ogni protocollo e approdando perfino in televisione, addirittura a Sanremo, con la chiara intuizione che, per entrare davvero nelle case, bisogna abitare i media.

Ha scelto di spostarsi in utilitaria, ha indossato scarpe ortopediche invece delle tradizionali calzature papali, portava da sé la sua vecchia borsa di pelle logora e ha ritirato di persona i suoi occhiali da vista in un negozio di Roma, ribadendo che “bisogna abituarsi alla normalità della vita”.
Ancora quella parola ricorrente: vita. Quella di tutti e di ogni giorno.
Ha telefonato a persone comuni, rompendo ogni convenzione e rendendo la sua immagine più accessibile, perfino familiare: un vero e proprio rebranding del papato.

Ha preso l’istituzione più antica del mondo e ne ha modificato la narrazione, rendendola un volto capace di bucare la bolla.
Forse è questo il miracolo comunicativo più grande: ha dimostrato che anche i brand più paludati possono rinascere, se trovano il coraggio di scavalcare il protocollo e mettersi in ascolto. Del mondo che cambia, si trasforma, affronta nuove sfide ed ha bisogno di risposte e indicazioni comprensibili e umane. Un’umanità fragile e nuova che cerca pastori che abbiano la sua stessa spuzza, che siano immersi nella realtà, nei dubbi, negli errori. Senza pontificare.

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