Continuo a sostenerlo: il governo pentaleghista, in realtà, l’ha creato Berlusconi.
L’ingresso in politica del Cavaliere, nel 1994, ha costituito lo spartiacque sul quale la politica del like ha proliferato: la crisi ideologica seguita allo scandalo tangentopoli e al conseguente ridimensionamento di tutti i partiti di governo ha generato una voragine nel sistema politico italiano che il leader di Forza Italia ha prontamente colmato, forte di una consumata esperienza nel campo della comunicazione.
Messaggi immediati, suggestivi nella narrazione, veicolati con linguaggio comune e slogan semplificati (“meno tasse per tutti”, “un milione di posti di lavoro” e via réclamizzando, fino a “rimborseremo l’Imu” e “sconfiggeremo il cancro entro 3 anni”).
La politica è diventata un’esperienza emotiva, l’elettore viene trattato come un consumatore, gli ideali venduti come fossero merendine.
L’impeccabile strategia di Berlusconi ha avuto un’unica falla: quando è andato al governo la sua campagna elettorale permanente si è interrotta e lui ha smesso di comunicare in prima persona.
A distanza di 20 anni, Salvini e Di Maio non ci pensano minimamente: né di allentare l’esposizione mediatica né, a quanto pare, di governare.
Fatti propri i principi di Goebbelsiana memoria (“Occorre emettere costantemente informazioni e argomenti nuovi a un tale ritmo che, quando l’avversario risponda, il pubblico sia già interessato ad altre cose”), i 2 vicepremier annunciano, controbattono, dichiarano e si smentiscono a ritmo incalzante, in un perenne asilo mediatico che impenna lo spread e tiene in ostaggio il Paese. Invece di lavorare, ça va sans dire. Finalmente quell’Italia che timbra il cartellino in mutande ha trovato degna rappresentanza.
Proprio su questo aspetto, curiosamente, ha fatto leva Giuseppe Conte durante la conferenza stampa di ieri a Palazzo Chigi, lanciando il suo ultimatum agli scolaretti indisciplinati:
“Se continuiamo a indugiare nelle polemiche a mezzo stampa, nelle provocazioni coltivate per mezzo di veline quotidiane, nelle freddure sparate a mezzo social non possiamo lavorare […] Siamo chiamati a disegnare il futuro del Paese, che è una cosa un po’ diversa dal soddisfare gli umori della piazza infotelematica, dal collezionare like nella moderna agorà digitale”, sostiene l’avvocato del popolo, peraltro in diretta Facebook.
Insomma basta. Basta con l’iperpresenzialismo comunicativo dissennato e continuo: qui ci sono le magnifiche sorti e progressive del contratto di governo da salvaguardare.
E se Il Manifesto del 28 giugno 1983 era riuscito ad insinuarci il dubbio che, forse, “non moriremo democristiani”, oggi, purtroppo, ne abbiamo la certezza: moriremo berlusconiani.