Solitudine. E’ spesso la prima sensazione che provo quando mi collego a Facebook e inizio a leggere le “esternazioni” dei miei contatti che, prendendo troppo sul serio la parola “diario”, approdano immancabilmente a quel fenomeno definito “oversharing”, cioè condividere ogni dettaglio della propria vita privata con una platea spesso del tutto sconosciuta.
Dall’esito dell’esame delle urine al cibo immortalato nel piatto alla richiesta di un consiglio per combattere la dissenteria: non hanno assolutamente nulla da dire, ma lo dicono almeno una dozzina di volte al giorno senza fermarsi a considerare che stanno solo parlando con se stessi di argomenti che non possono in alcun modo risultare di pubblico interesse.
Mi torna in mente ciò che Zygmunt Bauman, filosofo della società liquida, disse a proposito di Facebook: “Mark Zuckerberg ha capitalizzato 50 miliardi di dollari puntando sulla nostra paura di essere soli, ed ecco il suo social network: mai nella storia umana c’è stata così tanta comunicazione, la quale però non sfocia nel dialogo, che resta oggi la sfida culturale più importante”.
Nell’era del “condivido quindi sono”, infatti, è bene ricordare che condividere non è dialogare ma che si avvicina di più a un monologo collettivo nel quale, per riuscire ad attirare l’attenzione e ad emergere dal rumore di fondo, finiamo per gridare sempre più forte contenuti sempre meno interessanti, perché meno ragionati.
La dipendenza da “like” ci ha indotto a preferire la quantità delle connessioni alla qualità delle conversazioni: ostentiamo vite incredibili mentre siamo più soli che mai, o “alone together” come direbbe Sherry Turkle, ma pur sempre “alone”.
Catapultati di prepotenza in un incessante flusso di messaggi, post e tweet, ci illudiamo di relazionarci con altre persone ma ci isoliamo sempre di più, perdendo quel contatto umano che non si trasmette attraverso uno schermo con un’emoticon, ma attorno a un tavolo guardandosi negli occhi.