Sui social network ci imbattiamo continuamente in commenti che poco (o nulla) hanno a che vedere con l’argomento trattato, scritti da individui che non solo si sono limitati a leggere il titolo, ma l’hanno letto (e quindi interpretato) alla luce delle proprie personali convinzioni.
Un esperimento clamoroso, in questo senso, l’ha condotto The Science Post un anno fa: ha pubblicato un articolo composto interamente da un testo in latino (che iniziava col famoso “lorem ipsum”, cioè il “segnaposto” utilizzato da grafici e designer come riempitivo), titolando: “Il 70% degli utenti Facebook legge solo i titoli delle notizie scientifiche prima di commentarle”.
Ha ottenuto oltre 123.000 condivisioni di persone che, evidentemente, non avendolo letto non ne hanno colto l’ironia.
Particolarmente interessante anche il racconto del Secolo XIX, che ha seguito l’evoluzione dei commenti alla notizia del tentativo di darsi fuoco da parte di un uomo dopo aver perso casa e lavoro, in un’apoteosi di discriminazione: “Diamo lavoro agli altri…”; “Aiutiamo gli altri, noi carne da macello”; “Ma noi… pensiamo a ‘sti maledetti immigrati”.
Peccato solo che il protagonista della vicenda fosse proprio un cittadino straniero: bastava leggere.
Con questi esempi ancora vivi nella memoria, ieri sono incappata in un post che sta avendo un grande successo su Facebook, in cui un’infermiera di sala operatoria racconta la giornata-tipo di una professione sfibrante e sicuramente non abbastanza retribuita: orari impossibili, turni massacranti, emergenze da fronteggiare, contatto costante con la morte.
La testimonianza, toccante e straordinaria, scaturisce dalla rabbia nei confronti di un quotidiano che in prima pagina titolava:
Siamo il popolo della pausa caffè
Non solo gli infermieri, ecco tutti i “tempi morti” che paghiamo
E… sì, esattamente come le oltre 8.000 persone che hanno condiviso il post, l’ho pensato anch’io: accidenti, che bastardi.
Poi però mi è venuto lo scrupolo di approfondire, ho recuperato l’edizione del giornale e letto ogni singola riga di entrambe le pagine dedicate all’argomento.
Il primo pezzo, di Franco Veroli, ripercorre la decisione del tribunale di Macerata che ha stabilito che i tempi per indossare e togliere il camice da infermiere o da operatore socio sanitario devono essere considerati “lavorativi” e, dunque, vanno retribuiti. In nessun paragrafo la sentenza viene contestata, o giudicata.
Il secondo pezzo, di Achille Perego, riassume come viene regolamentato dalla giurisprudenza il “tempo tuta”.
Infine il terzo pezzo, di Antonio Troise, ripercorre alcune richieste assurde, come quella dei metalmeccanici di un’azienda ligure che hanno cercato di farsi pagare non solo il tempo per indossare la tuta ma anche quello per la doccia a fine turno, o quella del vigile urbano che leggeva il giornale nel bel mezzo di un ingorgo, sostenendo di aver diritto a quel break di 10 minuti stabilito dalla legge italiana. Ma, tra gli esempi negativi, non si parla di infermieri né di personale ospedaliero.
In compenso i giornalisti, che in nessun passaggio hanno attaccato fantomatiche pause caffè di immaginari infermieri fannulloni, ne hanno ricavato su Facebook un attacco personale nei confronti non solo delle loro competenze (“parlate piuttosto del caldo”) ma anche dei ritmi lavorativi, spacciati, loro sì, per scansafatiche che dormono serenamente fino a tardi, lavorano seduti comodamente dietro una scrivania, si ristorano con frequenti pause-caffè e vanno a divertirsi per le feste comandate.
Il tutto con la benedizione degli oltre 2000 commentatori che, presumibilmente, non hanno letto il giornale ma hanno ben chiaro quanto siano stronzi i giornalisti, a prescindere.
E se lo sostengono anche Di Maio e Di Battista, una ragione ci sarà.
Sono convinta che la professione infermieristica sia più faticosa? Sì.
Sono convinta che sia più utile? Assolutamente sì.
Sacrificherei un giornalista per avere in cambio un operatore sanitario? Ne sacrificherei 100.
Lavorare in ospedale non è una professione, è una missione che richiede sacrificio, dedizione e una carica umana straordinaria. Ci vuole un enorme coraggio per dedicare la propria vita al benessere altrui, a garantire ai cittadini quella salute che spesso medici e infermieri sono i primi a perdere, vittime di giornate infinite trascorse in condizioni limite, in balia di ritmi massacranti.
Ma non ha nulla a che vedere con gli articoli citati. Nulla.
Le fake news, spesso, sono nell’occhio di chi (non) legge.