La polemica sulle chiacchiere vendute da Igino Massari a 100 euro al chilo ha riacceso il dibattito sul concetto di lusso e sul suo posizionamento nel mercato contemporaneo.
E la risposta del maestro pasticcere, “non sono care, ma costose, la perfezione ha un prezzo”, rivela una strategia di marketing accurata, fondata sull’esclusività e sulla percezione di un valore superiore: “caro” corrisponderebbe a un prodotto che non vale il prezzo che ha, mentre “costoso” si riferirebbe a qualcosa di eccellente che non tutti si possono permettere.
Mettiamo da parte, per un attimo, il dilemma morale sulla giusta cifra che si può spendere per un dolce e guardiamo la questione con occhi da marketer, è evidente che Massari non sta vendendo solo un alimento: sta vendendo uno status, un’esperienza, un simbolo di distinzione il cui prezzo è parte integrante della narrazione.
Se Rolex vendesse orologi da 199 euro, perderebbe di valore non solo agli occhi dei suoi acquirenti ma di tutto il pubblico che applica a questo orologio un valore reputazionale, desiderandolo proprio perché non se lo può permettere.
Lo stesso vale per il guru della pasticceria: il suo marchio si regge sull’idea che non si sta semplicemente assaporando un impasto di farina, burro e zucchero, ma un frammento di perfezione, un accordo nello spartito di una melodia esclusiva.
Il problema, però, è che il confine tra esclusività e presa in giro è sottile come una sfoglia ben tirata. L’idea di un prezzo premium funziona solo se il consumatore lo percepisce come giustificato, altrimenti si rischia l’effetto opposto: invece di rafforzare il brand, lo si trasforma in un bersaglio per meme e indignazione da social.
E sì, potremmo anche accogliere l’invito di Daniela Santanchè a non criminalizzare il lusso (salvo poi regalare borse contraffatte), ma la raffinatezza del palato non sempre va di pari passo con la capienza del portafoglio, e proporci i sapori della cucina tradizionale a prezzi proibitivi non solo è un controsenso, è snobismo gastronomico.
A meno che, più che la qualità, sul piatto della bilancia non ci sia l’instagrammabilità del prodotto: non lo acquisto per mangiarlo ma per poterlo fotografare, metterlo sui social e sfamare il mio ego, raccontando a tutti quanto l’ho gustato.
E l’immagine virtuale, si sa, non è solo costosa: è cara arrabbiata.