Appartengo a quella nutrita schiera di tifosi che, del ritiro di Rafa, proprio non riesce a farsi una ragione.
Certo, anche quello di Roger è stato difficile da digerire, ma le pennellate dell’artista, in qualche modo, mi sono sempre sembrate più evanescenti rispetto alla travolgente intensità dei colpi di Nadal che sembravano impermeabili al trascorrere del tempo, come una forza che, per definizione, non può esaurirsi mai.
Perché sì, anch’io che di marketing mi occupo per mestiere, alzo le mani di fronte a una narrazione che travalica i confini dello sport ed entra di prepotenza nel mito: quella del guerriero, dell’atleta indomito capace di superare ogni limite fisico e mentale, giocando ogni singolo 15 come fosse l’ultimo.
Ma la vera grande forza di Rafael Nadal è stata la sua capacità di rendere umano il mito, mostrando la fragilità che si nascondeva dietro la sua corazza: chi lo ha visto giocare conosce bene il dolore, la fatica, la stanchezza che hanno accompagnato ogni trionfo, aggiungendo vulnerabilità umana alla tenacia del combattente.
Un uomo che ha convissuto con dolori fisici che avrebbero abbattuto chiunque altro, che ha spinto il suo corpo oltre ogni limite e che, oggi, si trova costretto ad accettare che anche i guerrieri, prima o poi, devono posare la spada.
Secondo i medici avrebbe dovuto farlo già a 19 anni, dopo aver vinto il primo Roland Garros, quando gli dissero che non poteva più giocare a causa di una malformazione al piede sinistro (la sindrome di Müller-Weiss). Ne ha vinti altri 13.
Arginò il dolore al piede con un plantare speciale, che però gli infiammava il ginocchio, incidendo sull’anca la quale, a sua volta, indeboliva gli addominali.
In 20 anni di carriera ha subito strappi e fratture da stress, si è rotto i tendini, si sono sgretolate 2 costole e un piede. Si è fermato per infortunio 18 volte, restando lontano dai campi da tennis per 58 mesi: 5 anni complessivi di assenza.
Il corpo rammendato lo ha costretto a rivedere i colpi e a modificare lo stile di gioco.
Per alleggerire il ginocchio malconcio ha spostato il peso sulla gamba sinistra, ruotando l’anca e portando la flessione sull’altra gamba. Ha cambiato l’esecuzione del rovescio, ruotando il fianco per alleggerire il carico.
E nel frattempo ha continuato a vincere.
Per chi si occupa di marketing, la lezione che si può trarre da una figura come Nadal è potente.
Nel mondo della comunicazione, siamo spesso tentati di semplificare, di costruire storie nette, di trasformare persone complesse in simboli che parlano a un pubblico vasto.
Ma la forza di una narrazione efficace sta nel saper dosare umanità e leggenda.
Nadal è stato un campione proprio perché ha saputo incarnare entrambi gli aspetti: l’invincibile e il vulnerabile, l’eroe e l’uomo.
Con il suo ritiro, non perdiamo solo uno dei tennisti più forti di sempre, ma un esempio di resilienza e autenticità che continuerà ad ispirare oltre lo sport.
Perché, come in ogni buona storia, la realtà è più interessante, più efficace, più eroica del mito.