Gli stessi talebani che nel 1996, quando presero Kabul per la prima volta, vietarono televisione, fotografia, musica e ogni altra forma di intrattenimento, oggi utilizzano i social media come primario strumento di propaganda: lo smartphone ha sostituito il kalashnikow e la guerra viene combattuta a colpi di storytelling.
In un Afghanistan sempre più tecnologicamente avanzato, in cui si stima che circa il 70% della popolazione possieda un cellulare (sotto il governo sostenuto dagli Stati Uniti sono stati installati ripetitori in tutto il Paese), gli studenti coranici faticherebbero ad applicare restrizioni nei confronti delle piattaforme sociali (come fanno, ad esempio, Russia e Cina): molto meglio presidiarle attraverso una strategia comunicativa che mira più a tranquillizzare che a spaventare.
Chi, in questi giorni, sta seguendo le notizie da Kabul, viene sopraffatto non solo dall’atrocità della cronaca ma anche dall’effetto distopico che si crea tra le immagini che testimoniano la disperazione dei civili aggrappati a un aereo in fase di decollo, o le madri che lanciano i bambini oltre il filo spinato dell’aeroporto per metterli in salvo, e la narrazione social dei talebani che ostenta un clima disteso di pace e stabilità, preoccupandosi di risultare credibile soprattutto in tema di diritti delle donne, cui la comunità internazionale guarda con particolare apprensione.
E così vediamo il video di un gruppo di ragazzine con lo hijab che entra in un istituto, accompagnato dal testo: “La ripresa delle scuole nel Nuovo Afghanistan”, mentre i giornali ci raccontano di donne costrette al burqua, nascoste in casa, braccate e rastrellate come bottino di guerra.
La campagna digitale, incentrata sull’evoluzione del talebano da homo erectus a homo influencer, si avvale di un social media team professionale e di una strategia di engagement orientata a perseguire un duplice obiettivo: dimostrare di poter governare ed integrare il Paese, presentando un volto responsabile che ottenga legittimità dai governi stranieri e conquistare il proprio pubblico nazionale attraverso una narrazione coinvolgente, articolata in immagini rassicuranti e parole chiave semplici e ripetute.
I video dei miliziani che, dopo essersi impadroniti di Kabul, festeggiavano la vittoria al luna park tra autoscontri, giostre e tappeti elastici hanno spopolato su Twitter grazie soprattutto ai protagonisti barbuti che urlavano di gioia manco avessero conquistato Disneyland: a differenza dell’ISIS, che utilizzava le reti sociali come strumento di reclutamento, i talebani le sfruttano per accattivarsi le comunità locali, in una sorta di macabra operazione simpatia.
Divertenti, disinvolti e mattacchioni, i guerriglieri hanno raggiunto l’apoteosi propagandistica deridendo gli Stati Uniti attraverso un video che li propone mentre piantano nel terreno la bandiera bianca del gruppo fondamentalista con indosso le divise dei soldati americani: la pantomima fa il verso ai marines che issarono la bandiera a stelle e strisce sul Monte Suribachi, immortalati da Joe Rosental nel 1945.
Dopo essersi impossessati di armi, mezzi ed equipaggiamenti lasciati dall’esercito statunitense in fuga, ora i selvatici combattenti, con piglio da attori consumati, scimmiottano quella potenza mondiale schizofrenica che si è volatilizzata in pochi istanti dopo vent’anni di occupazione e trilioni spesi per esportare una democrazia “USA e getta”.