La Commissione Europea ha multato Google per 2,4 miliardi di euro con l’accusa di avere infranto le regole dell’antitrust europeo abusando della propria posizione dominante nel campo delle ricerche Web, e in particolare dello shopping online, a danno della libera concorrenza.
Perché, esattamente, vogliono punire l’azienda di Mountain View?
Leggendo le agenzie e gli articoli della stampa, non risulta molto chiaro: si parla genericamente di “abusi” perpetrati da Google Shopping, servizio online di comparazione dei prezzi a pagamento: in pratica le aziende pagano per ottenere una posizione privilegiata dei propri prodotti.
Ma il problema non è questo: Google è ovviamente libero di chiedere denaro per dare visibilità a un prodotto all’interno di un servizio, appunto, a pagamento.
Ciò che viene contestato a bigG è il fatto che questi stessi prodotti appaiano anche in testa ai “risultati organici”, in un “pannello delle anteprime” collocato in cima alla pagina quando si effettua una query generica sul motore di ricerca.
In pratica, se facciamo una ricerca generica con parola-chiave “mountain bike”, in alto tra i risultati otterremo le immagini di una serie di biciclette con prezzi e caratteristiche che rimandano direttamente al sito del venditore, che paga appunto Google per avere visibilità nel suo servizio di acquisti.
Questa operazione darebbe un vantaggio illegale ai prodotti inseriti su Google Shopping, a scapito di quei siti che offrono servizi analoghi di confronto prezzi tra diversi venditori, ma che non pagano Google per essere sponsorizzati.
A confermarlo sono le parole della commissaria Margrethe Vestager, che definisce Google Shopping eccessivamente visibile rispetto ai servizi “rivali”, relegati molto più in basso tra i risultati di ricerca.
In poche parole l’algoritmo risulta discriminatorio, favorendo il proprio servizio rispetto agli altri.
Stando alle motivazioni della Commissione, da quando “l’abuso di posizione” è iniziato, il traffico sul servizio di di shopping di Google si è moltiplicato in modo esponenziale: 45 volte tanto nel Regno Unito, 35 volte in Germania, 29 volte in Olanda, 19 volte in Francia e 14 in Italia.
Questo avrebbe causato un crollo del traffico sui servizi dei concorrenti: fino all’85% nel Regno Unito, con punte del 92% in Germania.
Il colosso di Mountain View, ovviamente, non si trova d’accordo con questa conclusione e, tramite il vice presidente Kent Walker, annuncia ricorso.
In realtà, l’unica fatto strano è che siano serviti 7 anni di indagine per stabilire che Google, col suo algoritmo, fa ciò che vuole.