La brand identity, cioè l’immagine che un’azienda vuole dare di sé (David Aaker), è una cosa seria: i professionisti del marketing e della comunicazione lavorano assiduamente affinché un marchio trasmetta valori coi quali il consumatore possa identificarsi.
Anni fa, ad esempio, Lacoste non gradì affatto che Anders Breivik, autore delle stragi in Norvegia, indossasse le polo col celebre coccodrillo: si è sentita minacciata da un simile testimonial non richiesto e ha temuto un danno di immagine.
Ma la brand image, cioè l’immagine della marca così come viene recepita dai consumatori (Jean-Noël Kapferer), è altrettanto seria perché può succedere che, anche inconsciamente, si finisca per trasferire al marchio uno status symbol col quale non è detto ci si voglia identificare.
Ne parlavo con un amico qualche tempo fa in seguito al ritrovamento del corpo di una ragazza in un container a Rimini: per favorirne il riconoscimento, le forze dell’ordine avevano rilasciato alla stampa i dettagli sul suo abbigliamento, tra cui un paio di shorts Oviesse.
Ricordo di aver fatto un discorso delirante (aggravato dal fatto che ero sobria) tipo: “Se dovessi passare a miglior vita, mi urterebbe un sacco che la triste mietitrice mi cogliesse mentre sto bevendo una birra della Lidl, con addosso un pigiamone Primark e un paio di mutande Sloggi”.
Che poi è la versione più moderna e snob della raccomandazione delle nonne: “Cambiati la biancheria intima che se fai un incidente almeno vai in ospedale pulita”.
Intendiamoci: non c’è nulla di male ad acquistare prodotti low cost, prima o poi lo facciamo tutti (pure Selvaggia Lucarelli ha comprato il chiodo di Zara e si taglia i capelli dal parrucchiere cinese), solo che non lo sbandieriamo ai 4 venti e magari preferiremmo non essere ricordati per questo.
Così ieri, quando ho letto sul Carlino un pezzo riguardante il killer di Budrio, mi ha fatto sorridere che sul Fiorino sequestrato dalle forze dell’ordine, oltre a guanti in pelle, nastro isolante, cerotti e adesivi per suture, fosse stato ritrovato un barattolo di Nutella.
Ecco. Fossi una specie di Rambo che da 5 giorni dorme all’addiaccio, mangia cicoria e si nasconde nei fossi per evitare di essere catturato da un esercito di oltre 500 militari armati fino ai denti, mi seccherebbe da matti far sapere che mi ingozzo di Nutella. Come una casalinga qualunque che affoga le pene d’amore nel vasetto proibito, guardando Uomini e Donne.
Eddai, è poco serio.
Essere un killer spietato comporta grandi responsabilità verso l’immaginario collettivo: devi mangiare fagioli, bere rum e ascoltare i Black Sabbath. Non puoi ingurgitare crema alla nocciola mentre ti spari, che so, Laura Pausini a tutto buco.
Io comunque, per sicurezza, stasera vado a letto con un abito da cerimonia Armani. E naturalmente con 2 gocce di Chanel N°5, che fanno tanto glamour.
Come dire: dalla brand identity… alla brand dignity.